Ad una rilettura necessariamente sommaria de Le pietre di Venezia, ciò che più marca la distanza del libro dal secolo della ragione e della scienza, è la definitiva rivendicazione del colore dell'architettura e della città in generale. Nella migliore delle ipotesi, la città-tipo settecentesca è completamente bianca. Comunque, gli scrittori del secolo XVIII sono programmaticamente sordi al colore dell'architettura e delle città. Abbiamo visto, in proposito, il passo della Critica del giudizio in cui Kant ancora teorizzava il disegno come essenziale all'architettura, mentre ne considerava il colore un"aggiunta comunque inessenziale ai fini della formulazione d'un giudizio. Ma Kant arriva, con questo, solo alla fine d'una tradizione teorica ormai secolare. Ricorda Ermanno Migliorini che, per esempio, Yves Maria Andrè, che scrive il suo Essai sur le Beau nel 1741, s'inserisce, naturalmente, in tutto il dibattito tendente a conciliare il "bello di natura" e il "bello d'arte", ma nell'architettura, che (da lui) è assunta come esempio di bello artificiale, se l'essenza geometrica sembra chiaramente identificabile non è dato invece trovare traccia (almeno attraverso le parole di Andrè) della funzione del bello naturale cioè del "colore" (354)
Colore che, al contrario, ne Le pietre di Venezia assurge, appunto, al ruolo di protagonista. Ecco un passo ancora su San Marco:
«La percezione del colore è un dono largito a una persona e negato ad un'altra esattamente come l'orecchio musicale; e il primo requisito per un vero giudizio su San Marco è la perfezione di quella facoltà di percepire il colore che poche persone si preoccupano seriamente di sapere se esse possiedono o no. Perchè è appunto sul suo valore come un pezzo di perfetto e immutabile colore, che riposano i diritti di questo edificio al nostro rispetto; e un sordo potrebbe tanto pronunciare giudizi sopra i meriti di una grande orchestra, quanto un architetto educato soltanto nella composizione formale, può discernere la bellezza di San Marco. Esso possiede l'incanto del colore in comune colla maggior parte dell'architettura - come anche delle arti applicate - dell'Oriente; ed i Veneziani sono l'unico popolo europeo che abbia simpatizzato interamente col grande istinto delle razze orientali. Essi furono, in realtà, costretti a recare artisti da Costantinopoli per disegnare i mosaici della volta di San Marco e raggruppare i colori dei suoi portici; ma presto assunsero e sviulpparono, più virilmente, il sistema di cui avevano ricevuto l'esempio dei Greci: mentre i borghesi e i baroni del Nord stavano costruendo le loro cupe strade e i loro grigi castelli di quercia e di arenaria, i mercanti di Venezia coprivano i loro palazzi di porfido e d'oro; e quando infine i suoi grandi pittori crearono per lei un colore meno costoso che l'oro ed il porfido, anche questo, il più ricco dei suoi tesori, ella prodigò sui muri le cui fondamenta erano percorse dalle onde; e la forte marea, quando scorre sotto Rialto, si imporpora ancora ai nostri giorni, dei riflessi degli affreschi di Giorgione » (355)
Questa sensibilità al colore diventa, d'altro canto, addirittura il presupposto principale d'una delle idee più note e più radicali di Ruskin, vale a dire del suo rifiuto di tutta l'arte moderna, Rinascimento compreso:
«Io credo che dall'inizio del mondo non è mai esistita una vera e bella scuola d'arte in cui fosse disprezzato il colore. E' stato spesso ottenuto imperfettamente e applicato senza saggezza, ma io credo che l'amore del colore sia uno dei segni principali di vitalità in una scuola artistica: ed io so che uno dei primi segni di morte nelle scuole del Rinascimento, fu il loro disprezzo del colore» (356).
Colore che sta alla base, viceversa, dello stesso apprezzamento ruskiniano per il gotico:
«Badate, la questione non è ancora se le cattedrali del Nord siano migliori con o senza colore. Forse il grande grigio monotono della Natura e del Tempo è un colore migliore di quello che possa dare la mano dell'uomo: ma questo non è affare nostro in questo momento. Si osserva di fatto, semplicemente, che i costruttori di quelle cattedrali vi stesero sopra i colori più brillanti che essi sapessero ottenere, e che non esiste, per quanto io sappia, in Europa, nessun monumento di una scuola veramente nobile, che non sia stato o tutto quanto dipinto, o toccato vigorosamente di pitture, mosaici o dorature nelle sue parti più importanti» (357).
Naturalmente, questo apprezzamento del colore delle città, e in particolare di Venezia, non nasce con Ruskin. N' Ruskin è meno debitore di qualcuno fra i grandi romantici che l'hanno preceduto, per quanto riguarda l'altra sua idea-chiave, sulla progressiva decadenza dell'arte moderna. E basterebbe ricordare un Victor Hugo, un cui passo del 1832 suona così:
«Vedete perciò come, principiando dalla scoperta della stampa, l'architettura si dissecca a poco a poco, si atrofizza e si denuda. E' questa decadenza che si chiama Rinascimento. Decadenza magnifica, tuttavia, perchè il vecchio genio gotico, questo sole che tramonta dietro il gigantesco torchio di Magonza, penetra ancora per qualche tempo coi suoi raggi in tutto quell'ibrido ammasso di arcate latine e di colonnati corinzi. E' questo sole calante che noi prendiamo per un'aurora» (358)
E' ovviamente, da tutta una serie di cose come queste che Ruskin trarrà le coordinate teoriche per capire non solo i mosaici di Venezia ma la intera pittura medioevale, autentica, brillante, coloratissima Biblia pauperum, cui metterà fine, appunto, la stampa. Scrive ancora Victor Hugo:
«Le nostre lettrici ci perdoneranno se ci fermiamo un momento per cercare quale poteva essere il pensiero che si nascondeva sotto le emblematiche enigmatiche parole dell'arcidiacono: Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l'edificio. A parer nostro, quel pensiero aveva due facce. Prima di tutto era un pensiero da prete. Era il terrore del sacerdozio di fronte a un nuovo agente: la stampa. Ma sotto questo pensiero, indubbiamente il primo e più semplice, ce n'era, a parer nostro, un altro, più nuovo. Era il presentimento che il pensiero umano, cambiando forma, stava per cambiare modo di espressione, che l'idea fondamentale di ogni generazione non si sarebbe più scritta con la stessa materia e nello stesso modo, che il libro di pietra, così solido e così duraturo, avrebbe fatto posto al libro di carta, ancora più solido e più duraturo. A questo riguardo, la vaga formula dell'arcidiacono aveva un secondo senso; significava che un'arte stava per detronizzare un'altra arte. Essa voleva dire: "La stampa ucciderà l'architettura"» (359).
Sarebbe fuori luogo ripercorrere sia pure sommariamente gli influssi di Ruskin sulla moderna critica d'arte. Basti soltanto ricordare un aforisma di Nietzsche che forse non ci sarebbe stato se non ci fosse stato, appunto, Ruskin:
«In generale, noi non comprendiamo più l'architettura, almeno non nel modo in cui comprendiamo la musica; siamo cresciuti fuori dal simbolismo delle linee e delle figure, come siamo disabituati agli effetti sonori dal primo momento della retorica, e non abbiamo più succhiato fin dal primo momento della nostra vita questa specie di latte materno dell'educazione. In un edificio greco o cristiano tutto in origine significava qualcosa, in riguardo ad un più alto ordine di cose: questo senso di un significato inesauribile restava intorno all'edificio come un velo incantato. La bellezza entrava solo secondariamente nel sistema, senza che il sentimento fondamentale del misterioso e del magnifico fosse dalla bellezza sostanzialmente pregiudicato; la bellezza addolciva tutt' al più l'orrore, - ma questo orrore era dappertutto la premessa. - Che cosa è oggi per noi la bellezza di un edificio? E' come il bel viso di una donna senza spirito: una specie di maschera» (360).
E nel 1927, Giacomo Debenedetti, recensendo uno dei libri cruciali della critica d'arte del Novecento Il gusto dei primitivi di Lionello Venturi, ancora scrive:
«Si sfascia (col Rinascimento) la meravigliosa civiltà del colore, ch'era stata tutta una celebrazione della fantasia pura e cioè senz'altro dell'arte: le sottentra la civiltà della "forma plastica", con tutti i suoi pesanti sottintesi intellettualistici e scienziali: produttrice in pratica di capolavori come tutte le civiltà artistiche, ma fecondissima se altre mai di manierismi (...) Ci vollero, alle soglie del Romanticismo, le ispirate interiezioni del giovane Wackenroder, appello febbrile alla spiritualità pura, alla qualità essenzialmente arazionale della creazione lirica; ci volle la sensibilità profetica di un Ruskin, nutrita di abbondanti esperienze dei capolavori "primitivi", capace di correggere nella perfezione impeccabile dei singoli giudizi i vizi di un'estetica piena ancora di tare naturalistiche e di contraddizioni, - perchè il gusto dei primitivi ricuperasse un suo posto nella moderna coscienza artistica» (361).
Il romanticismo ruskiniano, non solo non è tramontato, ma è tuttora fra noi, vivace anche nelle zone, e nelle direzioni, più impensate.
(354) JOHN RUSKIN, op. cit., p. 271.
(355) Ibid. p. 96.
(356) Ibid.
(357) VICTOR HUGO, Notre-Dame de Paris (cap. Ceci tuera Cela), oggi antologizzato in trad. it. da FRANCOISE CHOAY, La città. Utopie e realtà, trad. PAOLA PONIS, Torino, Einaudi, 1973, vol. II, p. 412.
(358) Ibid.
(359) Con questo passo, evidentemente, ha molto a che fare il concetto di "aura" elaborato da WALTER BENJAMIN.
(360) FRIEDRICH NIETZSCHE, Umano troppo umano, cit., pp.188-189.
(361) GIACOMO DEBENEDETTI, Saggi critici, Firenze, Edizioni di Solaria, 1929, pp.268-269.
Theorèin -
Giugno 2008